Dolce vagar per dialetti… in compagnia di traduttori e linguisti

Oggi 17 gennaio ricorre la quinta Giornata nazionale del dialetto e delle lingue locali, un’iniziativa dell’Unione Nazionale delle pro loco d’Italia nata per valorizzare il preziosissimo patrimonio linguistico del nostro paese. Linguaenauti ha pensato di celebrarla rivolgendosi a persone che per lavoro e passione osservano con cura e custodiscono la lingua italiana, per scoprire quale posto occupi il dialetto (proprio o altrui) nel loro quotidiano, o nella loro memoria. Leggendo le loro risposte troveremo curiose costellazioni di termini intraducibili, rievocheremo età e affetti lontani conservati nel suono di una parola… e magari prenderemo qualche spunto per esprimere concetti che in italiano, anche se esistono, non riescono a dire proprio la stessa cosa.

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Luciano Canfora, docente di filologia latina e greca e storico del mondo antico

Mi è tornato alla mente un termine dell’idioma barese, che ho udito dai parlanti in anni remoti (anche i dialetti si trasformano). Si tratta di sdreus, deformazione di “astruso”, ma che si dice di persona difficile e temibile.

Ilide Carmignani, consulente editoriale e traduttrice, tra gli altri, di Julio Cortázar, Luis Sepúlveda e Roberto Bolaño

Si sa che ai traduttori è sconsigliato usare il dialetto, sarebbe straniante all’orecchio del lettore, ma forse perché toscana, e quindi in un certo senso priva di dialetto, confesso di non aver mai avuto grandi tentazioni. L’italiano per me non è la lingua artificiosa, calata dall’alto, che lamenta qualcuno, ma la lingua viva che mi accompagna fin dalle ninnananne in braccio alla mia mamma. La lingua che ha detto tutto il mio dicibile, forse ogni tanto anche l’indicibile, e che per di più è “bella spietata”, perché così si esprimono i contadini toscani.

Al tempo stesso, forse proprio per questo, mi sono sempre piaciuti molto i dialetti (e le lingue) degli altri; il mondo è grande e vario e sarebbe una pena conoscere solo il proprio paesello. E allora ogni tanto mi capita, linguisticamente viaggiando, di invaghirmi di qualche espressione dialettale, non quelle rimbalzate ovunque dalle televisioni, milanesi sui canali di Berlusconi e romane sui canali RAI, ma semplici parole quotidiane, un po’ dimesse, raccolte in loco, come schiscio o malmostoso, gnucco o sbigulfio, e in testa a tutte adesso c’è porello, insieme tenero e ruvido, e così liberatorio, perché per me è come dire con un aggettivo solo: ‘nzomma, vaaaaabè, tesoro mio, me despiace pe’ te, ma ahò, sei proprio de coccio!

Alice Casarini, traduttrice di narrativa per ragazzi, esperta di traduzione audiovisiva, localizzazione videoludica e cotraduttrice dei volumi Harper Collins dedicati ad Animali fantastici e dove trovarli

Del dialetto bolognese apprezzo in particolare quei meravigliosi termini polifunzionali che corrispondono grossomodo al concetto di “roba, cosa, aggeggio”, riuscendo però ad aggiungervi una connotazione che non solo regala un prezioso tocco di couleur locale, ma in qualche modo facilita anche la comprensione (tra parlanti nativi, s’intende!). Troviamo quindi i bagaj e zavaj, a volte semi-italianizzati in bagagli e zavagli, per indicare oggetti (o anche persone!) tendenzialmente di scarsa utilità, ma anche il quèl e il lavurîr per dire “faccenda, cosa, questione” (spesso nelle espressioni un brótt lavurîr, “una brutta faccenda”, o un piò fât quèl/lavurîr, “una cosa stranissima”, con il fantastico uso di fât, “fatto”, per dire appunto “strano”).

Andrea De Benedetti, linguista e autore di La situazione è grammatica – Perché facciamo errori. Perché è normale farli (Einaudi)

La mia espressione dialettale favorita è: son ausame prest per andé a caghé luntan. Letteralmente: “mi sono alzato presto per andare a cacare lontano”. Finezza zero, ma il dialetto la nobilita. L’ho imparata da mio padre e la uso tutte le volte che faccio un lungo viaggio (o anche semplicemente un lungo sforzo) e alla fine mi accorgo che non ne valeva la pena. Come quando mi hanno fatto stare quattro giorni a Madrid per dieci minuti d’intervista con cane da guardia a Cristiano Ronaldo.

Federico Gaspari, docente di traduzione e ricercatore nel campo della traduttologia applicata, della traduzione automatica e dei corpora

C’è un aggettivo nel mio dialetto (di Macerata, nelle Marche) che mi trovo a usare relativamente spesso quando sono a casa o con gli amici di una vita, perché difficile da rendere in tutte le sue sfumature in italiano. La parola in questione è pritu (aggettivo, singolare maschile, ovviamente declinabile anche al femminile prita): indica una persona o un comportamento molto impacciato, goffo, schivo e timido in modo irrecuperabile; ha una valenza di irrimediabile (benevola) condanna, cioè indica un insieme di caratteristiche negative e irreversibili (in questo senso, al mio orecchio, è molto diverso, ad esempio, da “goffo” o “impacciato” in italiano, che possono descrivere tratti della personalità passeggeri o comportamenti temporanei). Il sostantivo che deriva da pritu è pritaggine.

Vera Gheno, twitter manager dell’Accademia della Crusca, docente, traduttrice e autrice di Guida pratica all’italiano scritto (Franco Cesati Editore)

Ho scelto l’espressione che io conosco come veneta (ma forse estesa anche ad alcune parti del Trentino) descanta-baùchi, che all’incirca significa disincanta-grulli o risveglia-bacucchi. Lo dice spesso mio padre, veneto di Romano D’Ezzelino, quando mi succede qualcosa perché sono distratta o sovrappensiero, tipo se inciampo nella soglia o batto una craniata nell’anta aperta di un pensile. Un commento ironico, di quelli che, a seconda dello stato d’animo, ti fanno ridere a tua volta o ti fanno arrabbiare. SBRENG! “Ah ah!! Descantabaùchi!” – commenta mio padre con aria trionfante, mentre io mi massaggio l’ennesimo mignolino frantumato contro lo stipite della porta. Scampoli di un idioletto che uso solo nella cerchia più ristretta della mia famiglia.

Yasmina Mélaouah, docente di traduzione e traduttrice, tra gli altri, di Daniel Pennac, Jean Genet e Alain Fournier

Due parole, che sono pezzi di famiglia, pezzi di geografia, briciole di affettività ma anche pepite lessicali di una densità che difficilmente trovo nella lingua standard. Gagno, piemontese, la lingua di mia nonna astigiana, e il suo diminutivo gagnetto: significa semplicemente bambino, ma  con una forza intima e colloquiale insieme che nessun parola standard ha, e che trovo nel francese môme, per esempio.

L’altra parola è invece un regalo di mio nonno, terrone, mezzo molisano e mezzo napoletano: capatosta, che sta per testardo, cocciuto, tenace. Mi piace il suono, mi piace che ci sia dentro la capa, mi piace perché rimanda a una cocciutaggine allegra.

Entrambe, va da sé, le ho infilate come splendide clandestine nelle mie traduzioni.

Anna Mioni, docente di traduzione, agente letteraria e traduttrice 

So ciapà coe bombe, letteralmente “sono preso con le bombe”, si usa in Veneto per indicare che sei oberato di impegni e non hai nemmeno il tempo di respirare (a Roma dicono “non so più a chi dare i resti”). Ho cercato le origini di questa espressione, ma non ne ho trovato traccia nei dizionari storici di dialetto veneto che avevo a portata di mano. Può essere, visto l’argomento, che nasca in tempi di guerra con i bombardamenti, ma non ho alcuna prova di questa ipotesi.

Giulio Mozzi, docente di scrittura e scrittore

Moestar, o molestar, secondo come lo si vuole scrivere (c’è quella “l” vocalica che è così tipica del veneto parlato in Padova e nella campagna d’intorno). “Muovere”, ma in senso molto lato; A gò moestà la gamba e dèsso la me fa mae (ho mosso la gamba e adesso mi fa male, detto da una persona che ha appena subito l’asportazione della vena safena); So ‘ndà moestare in te l’orto (sono andato a far lavori nell’orto). Ci sono affezionato perché una persona a me cara, e che parla un dialetto ormai quasi arcaico, ne fa un uso estensivo: Go moestà i cagnéti, ho dato una mossa ai cagnolini, cioè li ha sbattuti fuori di casa perché corrano un po’; So drìo moestar la pignàta, sto mescolando o rigirando quello che ho in pentola; e così via. Il bello è che questa persona, quando vuole dire il peggio possibile di qualcuno, passa alla formula del catechismo e dice: Xé ‘na persona molesta (pronunciando la “l” all’italiana). Vedi la sesta opera di misericordia spirituale: “Sopportare pazientemente le persone moleste”.

Bruno Osimo, traduttore, docente di traduzione e saggista 

La mia nonna materna, Pia Orefice, classe 1895, era un’ebrea veneziana e, essendo figlia di capostazione, ogni pochi mesi la famiglia cambiava residenza. Non so se sia per questo o per altri motivi, ma mi è stato tramandato l’aggettivo intrego con l’accezione di “imbranato, incapace, inetto” (mentre nei dizionari attuali lo si trova col significato di “intero”). Per qualche motivo declinato in famiglia prevalentemente al femminile, lascia implicitamente trasparire una visione del mondo in cui la donna sa fare tante cose, sa districarsi creativamente nelle difficoltà pratiche, ha una capacità di sopravvivenza ambientale in cui darwinianamente è fit, che va ben al di là di studi o insegnamenti diretti: e quando è unfit, è intrega, uno dei difetti peggiori di cui ci si possa macchiare.

Leonardo Marcello Pignataro, docente di traduzione e traduttore editoriale e audiovisivo dall’inglese e dal russo

Nel “lessico famigliare” della mia parte lucana, originaria di un paesino all’ombra del Pollino e dei suoi antichi pini loricati, ricorre frequente l’espressione ’nzallanut’, nelle varianti ’nsalanut’ e ’nsalamut’. La zona geografica è soggetta, per motivi storici ed economici, all’influenza linguistica del napoletano, di cui l’aggettivo sarebbe prestito e che lo ricondurrebbe a “inselenito”, ovvero “colpito da illunazione” e vicino parente di “lunatico”. ’Nzallanut’ è infatti chi se ne resta imbambolato – ca ti si’ ‘nzallanut’? -, chi è rimasto stregato dalle malie di una donna, sicuramente una poco di buono nell’ottica di madri e nonne… o delle mancate prescelte – chilla là l’ha ‘nzallanut’! – oppure chi per età, o anche per carattere o scelta di quieto vivere, ha ormai perso, o fa finta di aver perso, le capacità cognitive – eh, chill’è ‘nzallanut’… La terza delle varianti usate nella mia cerchia di affetti di quella terra – ’nsalamut’ – nasce invece dalla concretezza, tutta montanara e contadina, di una mia zia che con un esemplare esercizio di etimologia popolare fa venire l’aggettivo da “salame”. Già, la luna è meglio lasciarla a poeti e sognatori.

Claudia Zonghetti, traduttrice di grandi autori russi, tra cui Bulgakov, Dostoevskij e Tolstoj

Spervìngul (Fano, provincia PU) Certo, avrei potuto scegliere patacca o stolzo, che uso continuamente e che già godono di discreta fama grazie a Valentino Rossi (ma lui è di collina e io sono di costa), ma lo spervìngul – il folletto dispettoso che non sta mai fermo e rende irrequieto l’umano cui si accosta – ha qualcosa in più. Ha il ricordo della nonna che me lo diceva. E che mi prometteva un soché se stavo buona. Ma questa sarebbe già un’altra pagina…

Linguaenauti

Delle vacanze in Calabria a casa dei nonni materni ricordo soprattutto le interminabili conversazioni sulla porta di casa, borbottanti come i legumi freschi che sobbollivano in cucina, scandite dall’interiezione preferita di mia nonna: ‘nciss’iu, (“e io gli/le ho detto…”). Quel dolce sibilo accompagnava i giochi di noi bambini in mezzo alla strada, su cui si affacciavano altre casette con la corrispondente comare e relative parenti, anche loro intente a chiacchierare e ad arrostire peperoni sul fornello a gas, perché intra faceva troppo caldo (o meglio, s’abbampava).

L’altra espressione è una frase che il mio nonno friulano pronunciava una volta l’anno, tutti gli anni. Un giorno verso metà dicembre rientrava da qualche commissione con sciarpa, berretto e fiato fumante e proclamava: scumìnthia a glathàse le vorèles. In italiano significa semplicemente “cominciano a gelarsi le orecchie”, ma nel dialetto del mio paese questa frase diventava metafora: era cominciato l’inverno.

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