Nel 2016 è uscito per Franco Cesati Editore il volume Traduttori come mediatori culturali, una interessante raccolta di saggi che analizzano il complesso rapporto tra il traduttore, il testo originale e la cultura di arrivo in aree linguistiche e secoli diversi. I diciassette saggi che compongono il volume, scritti da studiosi provenienti da otto paesi, spiegano come la pratica della traduzione sia andata sempre più affinandosi nel corso del tempo e come i traduttori, interrogandosi sul proprio ruolo, abbiano dovuto superare ostacoli tanto pratici quanto metodologici per definire il concetto di “fedeltà linguistica”. Ne emerge la figura di un traduttore che è sopratutto mediatore culturale, capace cioè di dare una nuova identità al testo nella cultura di arrivo del suo tempo; un traghettatore di significato destinato a interrogarsi continuamente, al di là di ogni semplicismo. Linguaenauti ha intervistato il professor Sergio Portelli, curatore del volume insieme a Bart Van Den Bossche e Sidney Cardella, che ci racconta qual è stata la genesi del libro e quale ruolo abbiano traduzioni e traduttori nel mondo di oggi.
Com’è sorta l’idea di raccogliere i saggi di Traduttori come mediatori culturali e in base a quali criteri li avete selezionati?
L’idea mi è venuta riflettendo sul fatto che quando leggiamo un libro tradotto, non facciamo mai caso al traduttore. Al massimo leggiamo il suo nome sul frontespizio, ma ignoriamo tutto il lavoro che la traduzione comporta, le lunghe riflessioni sul testo e la paziente ricerca per capire termini, concetti, allusioni, metafore e riferimenti intertestuali, tutto inteso a trasmettere il messaggio, l’effetto e l’atmosfera del testo di partenza al lettore nella cultura d’arrivo. È questo lavoro certosino che costituisce la mediazione culturale alla quale si fa riferimento nel titolo del volume. I saggi raccolti nel libro gettano luce sul rapporto tra i traduttori e la pratica della traduzione, il loro rapporto col testo di partenza e con l’autore tradotto. Abbiamo voluto presentare un’ampia panoramica di contributi in cui si analizza la mediazione culturale esercitata sia da traduttori italiani sia da traduttori stranieri che hanno tradotto testi italiani. Nei saggi di Maria Adelaide Basile e Olga Gurevich, sono proprio le traduttrici che raccontano le proprie esperienze di mediazione culturale nella traduzione letteraria.
Nella premessa al libro lei e gli altri curatori affermate che «la traduttologia si è trasformata in uno dei settori prominenti delle scienze umane». Può spiegarci com’è cambiato il ruolo delle traduzioni e dei traduttori nella società di oggi?
La traduzione oggi ha molte ramificazioni. La globalizzazione dei mercati ha portato esigenze nuove di traduzione specialistica, di localizzazione, e di traduzione specifica per i nuovi media. Si è sviluppata anche la tecnologia per la traduzione, e sono nate nuove pratiche traduttive come il post-editing. Ci si è resi conto dell’importanza della traduzione nella mediazione tra culture diverse, non solo nell’ambito della condivisione del sapere, ma anche ai fini dell’integrazione sociale nel contesto delle migrazioni di massa a cui stiamo assistendo. Inoltre, i traduttori oggi hanno maggiori responsabilità dovute all’ampia diffusione dei testi su Internet, dove un grave errore di traduzione, magari dovuto proprio ad una mancanza di mediazione culturale, può avere conseguenze ben più ampie rispetto al passato. La traduttologia oggi tiene conto di queste trasformazioni, e pone maggiore enfasi sulla mediazione culturale piuttosto che sulla mera trasposizione linguistica.
I saggi contenuti nel libro coprono un arco temporale molto ampio e indagano anche il rapporto dei traduttori con il testo da tradurre. Ci racconta com’è cambiato questo rapporto nei secoli e come ha influito sulla qualità delle traduzioni?
La questione del modo di tradurre è molto antica e ha dato adito a tante polemiche nel corso dei secoli. Quello che ormai è chiaro è che non esiste un solo modo di tradurre, ma tutto dipende da quello che Vermeer chiama lo skopos della traduzione. Se per i testi sacri ci si è tradizionalmente attenuti ad una traduzione letterale, senza alcun tentativo di mediazione culturale, per altre tipologie di testi si sono avuti atteggiamenti diversi nel tempo. Dal medioevo fino al diciannovesimo secolo, la fedeltà al testo di partenza non era una priorità assoluta, e i traduttori si prendevano le libertà necessarie per conseguire i propri scopi letterari o ideologici. Non per questo però si cessava di riflettere sulla questione. Le traduzioni francesi chiamate ‘belle infedeli’ provocarono la reazione di chi era contrario alla radicale trasformazione del testo di partenza, e il dibattito continuò quasi fino al Novecento, quando la fedeltà traduttiva è diventata un elemento prioritario. Come si vede anche da alcuni saggi del libro, nel ventesimo secolo i traduttori hanno cominciato a sfruttare, quando possibile, l’opportunità di avvicinare gli autori. Si cercava di capire non solo il significato letterale, ma anche le intenzioni e i pensieri dell’autore dietro le parole del testo. Così si è arrivati a porre l’enfasi sul messaggio e sull’effetto del testo piuttosto che sulle parole che lo compongono. Si cerca di rendere quello che nell’Ottocento veniva chiamato lo ‘spirito’ del testo nella cultura d’arrivo, e questo richiede un processo di mediazione culturale del quale il traduttore oggi è ben consapevole.
Lei firma anche uno dei saggi contenuti nel libro, in cui racconta le vicende legate alla traduzione del Marino Faliero di Lord Byron, in un periodo storico in cui l’italiano in prosa si è arricchito enormemente proprio grazie al contributo dei traduttori. Crede che oggi la traduzione abbia ancora un ruolo, se non così prominente almeno significativo, nell’evoluzione della lingua italiana?
La traduzione arricchisce sempre la lingua d’arrivo, perché introduce nuovi concetti e nuove espressioni, e propone nuovi stili da imitare. Se siamo aperti alle novità, se non ci chiudiamo nel nostro mondo, il contatto con l’altro ci arricchisce sempre, anche nel modo di esprimerci. Certo esiste il pericolo che la preponderanza dell’inglese porti ad un massiccio utilizzo di parole inglesi a scapito dei termini italiani equivalenti. Tale pericolo, però, non deriva dalle traduzioni, che sono un veicolo di comunicazione mediato e meditato, ma piuttosto da altre fonti più immediate come la TV e i nuovi media.
Infine una domanda personale: si è laureato in italiano, ha lavorato come traduttore presso il Parlamento Europeo e adesso insegna al dipartimento di Traduzione dell’università di Malta. Com’è nata la sua passione per le lingue, la traduzione e l’italiano in particolare?
La mia attitudine naturale per le lingue è stata nutrita fin dall’infanzia dai miei genitori e dalla TV. Negli anni pre-scolastici, i miei genitori mi parlavano in italiano e guardavo i programmi della TV italiana. All’asilo ho imparato il maltese e l’inglese, che sono le due lingue ufficiali di Malta, perciò ben presto nella mia vita mi sono ritrovato trilingue. Poi ho imparato anche il francese a scuola e lo spagnolo in gioventù, per passatempo, mentre studiavo l’italiano all’univeristà. Inoltre, negli ultimi anni ho iniziato a studiare il cinese. La conoscenza delle lingue e la curiosità per culture diverse conducono quasi inevitabilmente alla traduzione, così negli anni in cui insegnavo l’italiano alle superiori ho fatto svariate traduzioni dall’italiano all’inglese e viceversa per diversi clienti. Quando Malta è diventata membro dell’Unione Europea nel 2004 ho fatto il traduttore al Parlamento Europeo per un anno, ma siccome ero più interessato ad una carriera accademica, ho preferito tornare a Malta dove poi ho iniziato la mia carriera universitaria.
Sergio Portelli è nato a Malta nel 1968. Professore associato di Translation Studies all’Università di Malta, insegna pratica della traduzione, terminologia e tecnologia della traduzione. Si occupa prevalentemente di letteratura comparata, storia culturale e terminologia. Ha tradotto in maltese opere di Moravia, Borges, Unamuno e Gregorio Magno.
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Non ho letto ancora la raccolta, ma ho trovato molto interessante l’intervista. Una precisazione: non tutti i mediatori interculturali sono in grado di eseguire traduzioni validi.
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l’intervista è davvero interessante. sono fermamente convinta del ruolo chiave del traduttore
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Interessante intervista con molti spunti di riflessione! Certamente leggerò questa raccolta!
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