Dove corre l’italiano? Intervista ad Andrea De Benedetti e Luca Mastrantonio

Andrea De Benedetti e Luca Mastrantonio hanno molto in comune: entrambi scrittori, giornalisti e docenti universitari, hanno fatto della passione per la lingua italiana uno… anzi, parecchi lavori! Linguaenauti ha chiesto loro di raccontarci dove li ha portati l’interesse per la nostra lingua e di tracciarne un piccolo bilancio di salute, tra l’immediatezza dei media e il ritorno alla scrittura che sperimentiamo nella comunicazione di ogni giorno.

AAEAAQAAAAAAAAE8AAAAJDFkZjlhMWVlLWQzMzctNGRmOC1iMjE5LTZmMGNiMzg5MGVjZAAndrea De Benedetti è linguista, giornalista, traduttore e docente presso la Scuola Superiore per Mediatori Linguistici Vittoria di Torino e presso l’Università degli Studi Internazionali di Roma (UNINT). Ha insegnato Lingua e Linguistica italiana presso l’Università di Granada e ha pubblicato Routine e rituali nella comunicazione (Paravia 1999), L’informazione liofilizzata (Franco Cesati 2004), Ogni bel gioco (Nerosubianco 2006), Val più la pratica: piccola grammatica immorale della lingua italiana (Laterza 2009) e La situazione è grammatica – Perché facciamo errori. Perché è normale farli (Einaudi 2015). È inoltre coautore della grammatica italiana per bienni superiori E ora, l’italiano (Laterza).

13162242_10208329769736397_1230402127_nLuca Mastrantonio è al Corriere della Sera dal 2011, per la progettazione e realizzazione dell’inserto La lettura. Attualmente è vicecaporedattore alla sezione Opinioni e commenti dell’ufficio centrale. Ha curato la webserie I ragazzi degli anni ’90 per Corriere TV e Corriere.it. È tra i conduttori di Prima Pagina, la rassegna Stampa di Radio 3. Ha pubblicato Hugo Chávez. Il caudillo pop (Marsilio 2007, con Rossana Miranda), Irrazionalpopolare (Einaudi 2008, con Francesco Bonami), Intellettuali del piffero (Marsilio 2013) e Pazzesco! Dizionario ragionato dell’italiano esagerato (Marsilio, 2015). Insegna Comunicazione multimediale alla Libera Università di Lingue e Comunicazione IULM di Milano.

Giornalisti, scrittori, docenti universitari: decisamente la riflessione sulla lingua italiana è centrale per voi. Come è nato questo interesse? E quando avete capito che sarebbe diventato il vostro lavoro?

A.d.B.L’interesse è nato presto: la grammatica, con le sue coniugazioni, i suoi paradigmi e le sue regole, rispondeva a un mio infantile bisogno d’ordine. Poi sono diventato un uomo disordinato, e a quel punto ho capito che anche la grammatica lo è: perché non ha risposte per tutto, perché sono risposte spesso parziali e a volte persino contraddittorie, perché soprattutto la lingua è per sua stessa costituzione alla mercé dei parlanti e degli scriventi, che la mettono quotidianamente a soqquadro e delle regole se ne fregano fino a un certo punto. Mi affascina l’idea che la lingua sia uno dei pochi ambiti autenticamente democratici della nostra vita, in cui tutti, per il fatto stesso di scrivere o parlare, hanno quotidianamente la possibilità di dire la loro. Quando ho capito che sarebbe diventato il mio lavoro? L’ho capito quando hanno cominciato a rinnovarmi i contratti in Università e a pagarmi per scrivere dei libri. Nessuna delle due cose è così frequente, davvero.

L.M. L’amore, e l’odio, per la lingua, è amore, e odio, per il mondo e le persone, compresi noi stessi. Da bambino mi divertivo a giocare con le parole, poi ho ritrovato quella passione antica nelle lezioni, memorabili, del professor Serianni alla Sapienza di Roma, dove ho studiato Lettere. Il giornalismo è stato uno sbocco inevitabile per chi, come me, ama misurare parole e cose, fatti e opinioni. Nei giornali la lingua si disfa e si rifà ogni giorno, acconciando le parole sui fatti, nel migliore dei casi. Poi – lo dico per inciso e con elaborato pudore – amo la poesia. Cioè parole che si fanno realtà.

Avete scritto diversi libri che analizzano l’evoluzione della lingua italiana. Secondo voi perché questo tema è oggetto di accesi dibattiti in Italia, in particolare sui social? E può avere a che fare proprio con il grande ritorno alla scrittura che stiamo sperimentando grazie ai nuovi media?

A.d.B.Perché l’italiano, come dicevo prima, appartiene a tutti, e tutti hanno un’opinione più o meno fondata e articolata, per lo più mutuata dalla scuola, di come dovrebbe funzionare. A voler essere schematici, direi che esistono due grossi partiti: il primo, quello degli integrati, che considera l’evoluzione linguistica un fatto naturale e inevitabile, e che dunque la accetta, insieme con tutte le novità che questa porta con sé, belle o brutte che siano; e il secondo, quello degli apocalittici – da me detti anche affettuosamente neo-crusc – che non si rassegna, che vorrebbe immortalare la lingua in una forma perfetta e definitiva, che se potesse bandirebbe tutti i neologismi degli ultimi cinquant’anni, che condanna non solo gli errori veri ma anche quelli che non lo sono, che sarebbe favorevole a togliere il diritto di voto a tutti quelli che non parlano come un libro stampato. È l’eterno dibattito fra puristi e antipuristi che si rinnova e che i social hanno semplicemente esteso a decine di migliaia di persone che una volta non si sarebbero mai occupate di queste questioni. Oggi, grazie ai social, hanno trovato la possibilità di esprimersi e lo strumento per farsi ascoltare. Purtroppo hanno trovato anche un pubblico di incompetenti disposti a dar loro corda.

L.M. Forse perché la lingua italiana è sempre più un’opinione. Come tutto in Italia. Dal calcio alla politica. Siamo un popolo di commissari tecnici e linguisti… Basti citare il caso #petaloso. Credo sia più colpa dei filosofi post-moderni alla Vattimo che non dei politici post-ideologici come Berlusconi. Anzi no, la colpa è di entrambi, con diversi gradi di responsabilità. Con i media digitali la novità è che la lingua è istantaneamente computerizzabile, calcolabile… condivisibile anche senza pensiero. Mezzi apparentemente illimitati, per pensieri spesso limitatissimi. Questione di velocità. Ciao, ciao Wittgenstein… Giuseppe Antonelli parla di “graforrea”, cioè logorrea scritta. Comunque se è vero che siamo animali sociali, sui social siamo soprattutto animali. E non parlo dei gattini.

Siete entrambi giornalisti. Pensate che il linguaggio giornalistico si limiti a intercettare le nuove tendenze (passeggere o meno) della lingua italiana o sia uno dei motori della sua evoluzione?

A.d.B. Non sono così sicuro che al giorno d’oggi si possa ancora parlare di linguaggio giornalistico: primo perché bisognerebbe capire che cosa sono oggi i giornali, e poi perché dovremmo stabilire chi sono i giornalisti. Un ventenne disposto a tutto pur di poter pubblicare un pezzo firmato, che scrive dieci articoli al giorno a tre euro l’uno per un sito all-news, può essere definito un giornalista? Un sito che macina centinaia di notizie al giorno scopiazzandole o traducendole da altri siti può essere definito “giornale”? Se la risposta a entrambi i quesiti è sì, ho il sospetto che il loro linguaggio non sarà poi molto diverso da quello utilizzato da un qualunque utente di social network. Se invece è no, se cioè i veri giornali sono ancora quelli cartacei e i veri giornalisti quelli che ci scrivono e vengono debitamente pagati per farlo, temo che il loro linguaggio abbia sempre meno capacità di orientare il gusto e la pratica linguistica. In entrambi i casi, mi sembra che il concetto di linguaggio giornalistico sia, dal punto di vista operativo, abbastanza superato.

L.M. Un tempo il giornalismo creava tormentoni, accelerava processi linguistici. Oggi molto meno, credo. Persino i dizionari rincorrono, ogni anno, folle di neologismi per sembrare aggiornatissimi, trendy, cool, smart… insomma, avete capito. I giornali sono meno centrali, e forse più liberi di scegliere il linguaggio più giusto, anche se è difficile, oggi, parlare ad un pubblico, ci sono molti pubblici, molte tribù, nicchie, gang, comunità… Sto abusando dei tre punti. Lo so…

Avete anche esperienza di traduzione. Cosa apprezzate di questa attività e cosa vi offre in termini di riflessione linguistica?

A.d.B.Difficile rispondere senza seminare un oceano di banalità. Dirò che la traduzione, per me, è come una forma di scrittura a ostacoli, in cui però gli ostacoli non li vedi a occhio nudo e devi essere tu, di volta in volta, a individuarli e a trovare il modo per superarli. In questo senso è un ottimo allenamento per la scrittura, perché impone disciplina e fantasia. Dirò altresì che tradurre è un esercizio del tutto innaturale di forzata simbiosi tra due lingue diverse, ma anche tra due modi diversi di usare la lingua: rinunciare al proprio gusto e al proprio modo di dire le cose – parlo ovviamente soprattutto della traduzione letteraria – è la cosa più difficile da imparare e da insegnare. Per quanto riguarda il discorso sulla riflessione linguistica, tradurre ti obbliga a capire come funziona la tua lingua e a spiegare, a te stesso e agli altri, le scelte che fai: in altre parole, tradurre aiuta ad acquisire a una maggiore consapevolezza riguardo alle regole che governano il proprio codice.

L.M. Marsilio mi ha chiesto di tradurre i tweet aforistici di Eric Jarosinski, in arte social NeinQuarterly, un profilo caratterizzato da un effervescente nichilismo che prende in giro alcuni feticci della cultura alta di ieri e di oggi, da Adorno – di cui “indossa” una caricatura nella foto dell’account – a Zizek, passando per Kafka e Freud. Eric Jarosinski si dichiara un intellettuale fallito, che è riuscito ad avere successo attraverso questo fallimento intellettuale. Ecco, io mi ci sono applicato da dilettante della traduzione quale sono. Il libro era molto divertente, l’ho tradotto impunemente, da traduttore fallito. E non è stato un successo. In un certo senso, l’allievo ha superato il maestro.

Infine, siete anche docenti universitari in ambiti strettamente legati alla lingua e alla comunicazione. Cosa significa per voi l’insegnamento e cosa vi dà, dal punto di vista professionale e personale?

A.d.B. L’insegnamento per me è un lavoro per il quale non credo di aver mai avuto una particolare vocazione, ma che col tempo credo di aver imparato a svolgere dignitosamente. Che cosa mi dà a livello professionale e personale? Tantissimo. Se non avessi insegnato, tanto per dire, non avrei neanche mai scritto libri: Val più la pratica e La situazione è grammatica sono nati entrambi da confronti e discussioni avuti con i miei studenti. Sono stati loro ad avermi ispirato, in modo più o meno consapevole, ed è a loro che, quando scrivo, mi rivolgo idealmente. Il mio timore è quello di imparare da loro più di quello che imparano loro da me. Nel caso, faccio gli scongiuri perché nessuno se ne accorga.

L.M.  Dal punto di vista professionale costringe a mettersi in discussione, ad aggiornarsi al di là degli orizzonti brevi e medi del lavoro quotidiano, e a vedere cosa si è in grado di trasmettere. Se non sai trasmettere conoscenza e passione vuol dire che non ce li hai, li hai persi, o non li hai mai avuti. Ho patito la sterilità dei miei maestri mancati: forse non ho saputo rivolgere il tipo di attenzione che loro volevano, forse sono arrivato quando le uova dei dinosauri, diciamo, erano già state deposte. Li cercavo, non li trovavo. IULM è stata una piacevole sorpresa: mi ha chiamato Gianni Canova, un critico cinematografico che seguivo ma non conoscevo direttamente, e ho notato la sua grande capacità di dialogo tra le generazioni: una dote che oggi è  vitale. Dal punto di vista personale, è fondamentale non perdere il contatto culturale e umano con le nuove leve, in questo Paese c’è un abisso tra vecchi analogici e giovani digitali. Mi piace molto una frase che il maestro della fotografia italiano, Vittorio Storaro, ha recentemente detto a Malcom Pagani sul Fatto quotidiano: una scuola è fatta di allievi oltre che di professori.

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