Quest’anno pordenonelegge ci ha regalato un altro incontro imperdibile, non solo per gli ispanisti o per gli appassionati di letteratura, ma anche per tutti coloro che amano sentire raccontare storie – di lotte, incontri, perdite, sconfitte e rivincite – da una voce che sembra conoscere tutte le vicende del mondo.
Già nel 2015 Luis Sepúlveda era stato a Pordenone per Dedica festival, una bellissima manifestazione che per una settimana omaggia un autore con interviste, letture, mostre e musica ispirati alla sua opera (e nel suo caso anche un ricovero all’ospedale per una polmonite, scoppiata dopo aver firmato libri per ore nel “mite” marzo friulano… ma questa è un’altra storia, anche se lui ha tenuto molto a ricordarla!). Chiunque l’abbia incontrato, sa che Sepúlveda non va solo letto; va anche ascoltato. Affronta le domande scavando nella genesi di qualsiasi fatto gli si chieda di raccontare, descrive centri concentrici e alla fine è lì, nel cuore del tornado calmo, calmissimo, delle sue parole, che arriva la risposta, come una rivelazione inevitabile. Ascoltarlo in un teatro pieno o in una piccola sala stampa non fa differenza: hai sempre l’impressione di trovarti in una baracca in Patagonia, mentre fuori fischia il vento e dentro si passa il tempo così, a raccontarsi la vita, amara e calda come il mate.
A pordenonelegge mi sono intrufolata nella sala stampa e poi a teatro per sentirlo presentare il suo ultimo libro, Storie ribelli, una raccolta di articoli che ripercorre quarant’anni di vita e lotte civili. Un’uscita che arriva in concomitanza con il recupero della cittadinanza cilena, un momento chiave nella sua lunga e difficile storia. Dal golpe di Pinochet del 1973, che lo porta alle torture, al carcere, all’esilio, al dolore di vedersi ritirare il passaporto e di trovarsi nella condizione di apolide; poi la cittadinanza tedesca, l’orgoglio di non voler chiedere quella cilena dopo la fine della dittatura, perché, dice: «Mi hanno tolto la cittadinanza senza chiedermelo, e ho sempre pensato che dovessero ridarmela allo stesso modo». E poi il lungo racconto concentrico del giorno in cui, ignaro di tutto, entra nel consolato cileno a Madrid e scopre che gli è stata restituita. Il dialogo con il funzionario, la sensazione di estraneità quando torna per le strade della città con il passaporto in mano, accanto all’amata moglie Carmen (perduta e ritrovata nei meandri di una storia d’amore che meriterebbe un romanzo) e lui, ancora scosso per essere entrato nel consolato da tedesco ed esserne uscito da cileno, che le chiede:
Come… come respira un cileno? Come cammina un cileno? Insegnamelo tu, perché io non lo so.
Dai racconti infiniti di Sepúlveda potrebbero dipanarsi mille storie; storie che gli escono dalle mani, dallo sguardo, da una vita che trabocca di esperienze inimmaginabili per molti di noi. Ma se ho scelto di raccontarvi proprio questa è perché mentre lo ascoltavo parlare del suo dolore di vedersi strappato fisicamente e umanamente da un’idea di patria («Ma come, pensavo, noi apolidi non siamo nati da nessuna parte? Non abbiamo un posto dove mangiare, dormire, fare l’amore?») una domanda prendeva forma nella mia testa, e girava più o meno intorno a queste tre parole: esilio, lingua, identità. Mentre mi ingegnavo a formularla una giornalista mi ha tolta dall’imbarazzo facendogli una domanda piuttosto simile… ed eccovi qui la sua risposta.
In tanti anni di esilio, da apolide e poi da cittadino di un paese non mio, la mia lingua è diventata la mia vera patria. Sono molto fiero di far parte di una comunità di cinquecento milioni di persone che si comprendono tra loro. La nostra è una lingua giovane, che certo è arrivata in America Latina in modo traumatico, ma che si è via via arricchita con le lingue dei popoli nativi e dei popoli immigrati dal resto del mondo. Tutto questo ha contribuito e contribuisce all’enorme ricchezza della lingua, un mezzo meraviglioso che ci fa superare la difficoltà incredibile di nominare le cose. Per questo motivo il castigliano, una lingua composta da moltissime culture diverse, per me è il concetto più vicino a un’idea di patria.
Queste parole mi hanno emozionata moltissimo, non solo per il suo sguardo mentre le pronunciava, ma anche perché trovo che rappresentino un concetto splendido di patria mobile, in cambiamento continuo, basata su un modo comune di nominare le cose, cioè di interpretarle e viverle. Inoltre mi ha colpita il radicale contrasto con quanto detto da Wole Soyinka, scrittore nigeriano premio Nobel nel 1986 che ho avuto occasione di sentire a pordenonelegge e che ha espresso un concetto diametralmente opposto, ma altrettanto intenso. Da una parte avrei voluto porgli la stessa domanda su traduzioni e traduttori fatta a Carlos Ruiz Zafón, ma in realtà so già quanto Sepúlveda ami i suoi traduttori; in quanto sua amica (di Facebook, eh!) mi capita molto spesso di leggere post pieni di ammirazione e affetto sincero per tutti loro. D’altra parte la sua traduttrice italiana è Ilide Carmignani, e con questo ho detto tutto!
Continuerei a scrivervi dell’incontro con Sepúlveda all’infinito, ma mi trattengo e vi lascio con la sua “cartolina” da pnlegge, in cui potete apprezzare il suo magnifico italiano… che permette anche a noi di entrare nella sua ricchissima patria linguistica.
Luis Sepúlveda è nato a Ovalle, in Cile, nel 1949. Costretto a lasciare il suo paese per motivi politici nel 1973, ha vissuto a lungo in America Latina, ad Amburgo e a Parigi. Oggi risiede a Gijón, nelle Asturie. Giornalista e scrittore conosciuto in tutto il mondo, a pordenonelegge ha annunciato di essere al lavoro su un nuovo romanzo e una nuova fiaba che vedranno la luce l’autunno prossimo.
Segui Linguaenauti su Facebook e Twitter @LinguaenautiBL
Tutt’altro che “‘itagnolo”… Nell’ intervista Sepulveda dimostra ha una grande padronanza della lingua italiana, con un forte accento spagnolo ma parla in modo grammaticalmente corretto… con scioltezza e padronanza. Insomma “itagnolo” credo faccia pensare ad atro. Complimenti invece a Sepulveda per lo splendido italiano. Per il resto molto bello tutto l’articolo.
"Mi piace"Piace a 1 persona
Ciao e grazie per il commento. Mi dispiace che “itagnolo” nel contesto di questo articolo faccia pensare ad altro, perché naturalmente ammiro moltissimo il fatto che Sepúlveda parli un italiano magnifico, con accenti e sfumature che rimandano alla sua lingua madre, che è sorella della nostra. Però accolgo volentieri il tuo riscontro e provvedo a modificare il termine per evitare fraintendimenti 🙂
"Mi piace""Mi piace"