Arturo Pérez-Reverte: alcuni traduttori mi ignorano

Il 19 settembre si è aperta una nuova edizione di Pordenonelegge, la diciannovesima della sua storia e per me la seconda con l’accredito stampa (la prima è stata quella del 2017, un’esperienza bellissima che ho ricapitolato qui). Nei giorni della Festa del libro con gli autori la mia piccola città cambia volto: non solo si tinge di giallo, ma si riempie di persone curiose, di angeli (i giovani volontari), di troupe televisive, di scrittori che non sono mai stati a Pordenone e che si guardano intorno divertiti. Sono cinque giorni frenetici e pieni di entusiasmo, in cui fai calcoli e incastri per non perderti i tuoi autori preferiti o quelli che vuoi conoscere.

Quest’anno ho davvero seguito tanti incontri; non tutti hanno a che fare con la linea editoriale di questo blog, ma nei prossimi post cercherò di raccontarveli il più possibile. Vi anticipo solo che, da brava ispanista, non mi sono persa nessuno dei quattro autori spagnoli in cartellone, tre dei quali nomi nuovi davvero promettenti: Barbas, Ferrándiz e Sierra (chissà che qualcuno non finisca in una futura edizione di Horizontes?). Comincio però dal nome più noto, quello di Arturo Pérez-Reverte, autore di tantissimi romanzi e soprattutto della celebre saga del Capitano Alatriste. L’avevo già “incontrato” a Pnlegge alcuni anni fa, ma quest’anno ho avuto il privilegio di partecipare alla conferenza stampa per la presentazione del suo nuovo romanzo, L’ultima carta è la morte (Rizzoli), naturalmente con la speranza di fargli una domanda sulla traduzione e ripetere l’emozione vissuta l’anno scorso con Carlos Ruiz Zafón.

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Devo dire che lui mi ha subito fornito un aggancio, perché ha esordito spiegando di essere ben consapevole che i suoi romanzi vengono letti in tutto il mondo, e per questo cerca di renderli seducenti per il maggior numero di persone possibile. Perciò per tutta la conferenza stampa mi sono aggrappata a queste parole sperando di non fargli una domanda troppo fuori contesto; del resto il suo romanzo parla di tutt’altro (è la storia di una spia franchista, un vero hijo de puta, nelle parole del suo creatore). L’incontro è stato davvero toccante, perché Pérez-Reverte ha parlato della guerra, e della guerra civile in particolare, spiegando quanto in questi contesti sia semplice discernere le idee e, quanto sia difficile leggere l’animo degli uomini che vi prendono parte. Attingendo alle sue esperienze personali, sia della guerra civile spagnola (combattuta dalla generazione di suo padre), sia delle diciotto guerre alle quali ha partecipato in veste di corrispondente, ha raccontato le tante sfumature dell’animo umano. Mi ha particolarmente colpita il racconto di una sua esperienza in Eritrea: mentre seguiva una banda di guerriglieri, racconta, si ammalò di dissenteria e stava rischiando di morire. Quegli uomini, con cui aveva condiviso moltissimo, lo curarono come un fratello, fecero di tutto per salvarlo da morte certa. Ma poco dopo, in battaglia, vide i suoi amici uccidere, torturare, violentare. Erano gli stessi uomini a cui lui doveva la vita, di cui condivideva le idee su quella guerra. Ma se le idee possono essere buone o cattive, per gli uomini non esiste questa distinzione così netta. Possiamo dare il meglio o il peggio di noi e lui, con l’immensa lucidità data dalla guerra, è riuscito a conoscere entrambe le anime dell’uomo.

Ma torniamo a noi: ero lì fremente, in attesa del mio momento, quando la responsabile della conferenza stampa ha annunciato che c’era tempo solo per un’ultima domanda! Come potete immaginare non sono riuscita a porla io… Ma non mi sono persa d’animo: quando tutti si sono alzati mi sono fiondata da don Arturo e, anche se andava di corsa, anche se c’era una gran confusione, l’ho agganciato quale intrepida reporter. Gli ho chiesto in fretta e furia quale rapporto ha con le sue traduzioni e i suoi traduttori, ed ecco cosa mi ha risposto:

Le traduzioni dei miei libri sono una cosa importantissima, mi permettono di raggiungere lettori in ogni angolo del mondo. Con alcuni dei miei traduttori ho un buon rapporto; in Italia ad esempio c’è il bravissimo Bruno Arpaia, un amico. Altri mi scrivono via mail i loro dubbi e io li sciolgo. Altri invece mi ignorano completamente, non li sento mai, non so cosa facciano… ma mi fido di loro!

Una dichiarazione breve ma intensa, perfettamente nel suo stile. In effetti la conferenza stampa ha chiarito un “sospetto” che già avevo: Pérez-Reverte non è uno di quegli scrittori innamorati della propria scrittura, o delle parole in generale; non credo che farebbe mai le pulci a un traduttore. È un uomo d’azione, che scrive per raccontare, che non parla mai di se stesso e non lascia trasparire i propri sentimenti o le proprie passioni nei suoi romanzi (e questo lo ha confermato lui stesso). Insomma, lo definirei un cronista della realtà, compresa la realtà romanzesca. Rimane solo un dubbio: come si fa a ignorarlo?

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2 risposte a "Arturo Pérez-Reverte: alcuni traduttori mi ignorano"

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