Arrival: 7 verità e una bugia sul lavoro del traduttore

Per una traduttrice appassionata tanto di lingue quanto di fantascienza Arrival era una tentazione troppo forte… e infatti ho ceduto senza opporre resistenza. A giudicare dalla trama, la nuova fatica del regista canadese Denis Villeneuve, basata su un racconto di Ted Chiang, poteva diventare un nuovo cult o rivelarsi una delusione cocente, ma ho corso il rischio e sono uscita dal cinema molto soddisfatta. In realtà non è un film sulla traduzione né sugli alieni, ma lungi dal deludermi mi sono goduta una magnifica riflessione filosofica sulla funzione del linguaggio come fondamento del pensiero e cornice interpretativa del mondo e sul sempre affascinante concetto di spazio-tempo, fusi in una prospettiva originale e incredibilmente suggestiva, al punto che sono passati tre giorni e ancora mi ci sto arrovellando. Ma non è mia intenzione spoilerare nulla, quindi non parlo oltre né delle mie aspettative né del film in sé, che consiglio a tutti di vedere per valutare di persona; invece, da traduttrice imperterrita, provo a cambiare prospettiva raccogliendo sette verità semiserie e una bugia che il film rivela sul lavoro del traduttore (spoetizzando un po’, naturalmente!).

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1. Se hai l’occasione di dimostrare quanto sei bravo, ti richiamano sicuro

Nel mondo della traduzione, è risaputo, funzionano ancora il passaparola e le raccomandazioni “sane” e se hai l’occasione giusta di dimostrare quanto vali sei già sulla buona strada. Nel film un supermilitare va dalla nostra eroina, Louise, e le dice: “Ehi, te la sei cavata bene con quella traduzione, la volta scorsa; adesso abbiamo un nuovo progettino, una cosetta con gli alieni, e abbiamo pensato a te”. Insomma, si tratta di farsi notare, essere al posto giusto al momento giusto, coltivare i contatti e magari avere quel quid di formazione o esperienza in più che i colleghi non hanno (tipo l’autorizzazione a lavorare sui documenti top secret della CIA, per fare un esempio).

2. Il cliente non ha la minima idea di come funzioni il tuo lavoro

Avete presente le richieste assurde che ci ricevete ogni tanto e che vi fanno interrogare seriamente su chi avete di fronte? Nel film il supermilitare fa ascoltare a Louise un audio (pessimo) con qualche versaccio alieno e le chiede di tradurlo, lì su due piedi, senza manco una cuffietta. Lei giustamente spiega che in quelle condizioni non può lavorare; lui risponde sgranando gli occhi: “Ma col farsi non ha avuto problemi”, e lei ribatte “Be’, sa com’è, conoscevo la lingua!” (con l’aria di chi vorrebbe concludere invocando la terza grazia). Il supermilitare, perplesso e deluso, la pianta lì, comunicandole sprezzante che troverà qualcun altro con meno pretese… Salvo poi tornare strisciando, ovviamente, quando capisce che la qualità di quello con meno pretese non è all’altezza delle richieste. (Vi dice niente?)

3. Il cliente non ha proprio idea di cosa fai nella vita

A un certo punto il supermilitare, scocciato di fronte alle reticenze della nostra Louise, sbotta: “Ma insomma, il farsi lo sai, il mandarino pure, fai tanto la linguista esperta e mi vieni a dire che non puoi capire la lingua degli alieni? Ma che ce vo’?” Insomma, un po’ come capita a noi traduttori dallo spagnolo quando il cliente ci dice: “C’ho uno che parla me pare portoghese, brasiliano, amerindio, boh: vedi un po’ che sta a di’?”. E la traduzione acrobatica è dietro l’angolo.

4. Anche il regista illuminato che fa un film su di te non ha alba di cosa fai per vivere

La nostra protagonista ha tutta l’aria di essere una linguista (quindi un’esperta di linguaggio e comunicazione umana, che per ovvie ragioni non può necessariamente conoscerne nel dettaglio tutte le manifestazioni), non necessariamente poliglotta né abile traduttrice, o meglio interprete o ancora mediatrice culturale, dato che si tratta in sostanza di interagire oralmente e non di lavorare su testi scritti… Insomma, anche regista e sceneggiatore fanno una gran confusione sui ruoli, complice forse il termine linguist che in inglese tira dentro un po’ tutto; e così la nostra Louise riunisce al massimo livello tutte le diverse specialità nel mondo delle lingue… e sa pure usare alla grande i CAT tools (ma qui mi fermo; chi ha visto il film sa di cosa parlo)!

5. Il cliente vuole tutto per ieri

Come ben sappiamo, nostro malgrado, il cliente medio non realizza che anche per noi traduttori esistono le notti, i weekend, le pause pranzo; e i supermilitari della nostra storia non fanno eccezione. Personalmente ho trovato emblematica una battuta del film che sarà di certo passata inosservata ai non traduttori: quando deve partire per cominciare a lavorare con gli alieni, la povera Louise, tirata giù dal letto in piena notte, implora: “Mi dà venti minuti?” “Partiamo tra dieci” è la risposta implacabile del client… ehm, del supermilitare. La storia della nostra vita, né più né meno.

6. C’è sempre un amico “scienziato” che ti fa la grazia di stimarti

Fisico, biologo, ingegnere; tutti noi frequentiamo uno “scienziato” che prima o poi ci comunica con condiscendenza che dopotutto anche la nostra specialità non è così disprezzabile. Nel caso di Louise è il collega che le spara qualcosa del tipo: “Ma dai, il tuo approccio alle lingue è quasi matematico, che forza!”. Come non riconoscersi in lei quando invece di partire col pippone su quanto la linguistica sia una scienza molto più esatta di quanto possa sembrare e su quanta filosofia sia infusa nella matematica, gli risponde con leggiadria? Perché in fondo chi ama le lingue è intrinsecamente pacifista, sa che parlarsi serve a comunicare e non a schiacciarsi a vicenda, quindi incassa e va, sopportando di buon grado il complesso di superiorità altrui.

7. Devi accettare la sfida, per quanto sembri impossibile

Il grande insegnamento che il film offre ai traduttori è proprio questo: spingersi oltre i propri limiti sempre, credendo in noi stessi e senza temere le conseguenze (dopotutto il peggio che può succedere è la distruzione dell’umanità, e che sarà mai?). Quindi niente paura: nessuna sfida è impossibile per il traduttore determinato, e se c’è da rinunciare al cibo, al sonno e all’equilibrio mentale non fa niente, tanto ci siamo già ampiamente abituati!

Tuttavia il film ha una piccola pecca dal punto di vista dei traduttori: ahimè, si tratta del falso insegnamento che il nostro lavoro sia considerato importantissimo da chi ci circonda.

La nostra Louise infatti è l’eroina indiscussa della vicenda, l’esperta che tutti stimano e a cui tutti si affidano per portare a termine il lavoro: “Dottoressa ci dica lei cosa fare, dottoressa ecco qui un team di trenta persone ai suoi ordini, dottoressa pendiamo tutti dalle sue labbra, una sua parola può condizionare la politica mondiale, le sorti dell’umanità, le relazioni intergalattiche: ci affidiamo alla sua sconfinata competenza e saggezza!”. Ecco, questo nella vita reale non succede mai. Ma non per niente, Arrival è un film di fantascienza.

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12 risposte a "Arrival: 7 verità e una bugia sul lavoro del traduttore"

  1. E consiglio vivamente di leggere il racconto di Chiang, _Story of my life_. Il film ne ha solo tratto spunto, la storia è totalmente diversa, ha molto di più del film, così come il film ha molto di più del racconto (nel racconto, per esempio le lingue degli alieni sono due… un po’ come il norvegese:-) ).

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  2. Anch’io non vedo l’ora di andare a vedere Arrival, soprattutto avendo già letto il racconto 😀 per quanto riguarda la bugia di cui si parla, più che come una bugia io la interpreterei come un elogio di questo mestiere, forse utopistico, ma doveroso in questo momento il cui il lavoro del traduttore e dell’interprete sembrano godere di una rinnovata attenzione, che speriamo in futuro risulterà anche in un riconoscimento in termini di compenso 😉 mai arrendersi!

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  3. “Anche il regista illuminato che fa un film su di te non ha alba di cosa fai per vivere”. Secondo me il regista non aveva la minima intenzione di fare un film su una traduttrice. La protagonista è effettivamente una linguista (insegna linguistica all’università), sa diverse lingue e le è capitato di fare una traduzione (quante volte esperti di lingue prendono in carico traduzioni senza essere veri e propri traduttori). Quindi la confusione secondo me non è nella testa del regista che prima di fare il film non si è informato sulla differenza tra traduttore/linguista/mediatore, bensì è legata alla poliedricità della protagonista e alla moltitudine degli ambiti linguistici in cui si destreggia. Detto questo, ho trovato un po’ eccessiva e poco reale proprio questa poliedricità, ma chi lo sa, qualche genio deve pur esistere al mondo e, se non esiste, è compito dei film inventarlo per lo spettatore 😉

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    1. Grazie per l’osservazione 🙂 Certo, la mia era una battuta proprio dovuta alla poliedricità di Louise, ma come dici tu qualche genio deve pur esistere; se non nella realtà, almeno come modello per farci sognare!

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